Ricordarsi di respirare. Che pare strano, perché l'involontario è inconsapevole e prescinde da ogni forma di arbitrio umano. Ma a volte si pensa ad altro, e la negazione di sé stessi prevale sull'istinto di sopravvivenza. Ma c'è sempre tempo per alzare la testa, c'è sempre tempo per una boccata d'aria, c'è sempre tempo per consapevolizzare l'inconsapevole. E se non c'è tempo ci saranno i minuti di recupero. Se non bastano, qualcuno li prolungherà per te.
Che fatica, che fatica. Ancora una volta il Cagliari le ha provate tutte per "lazzarizzare" anche il Benevento, quello che per diciotto squadre su diciannove era diventato una passeggiata da affrontare in scioltezza. Non per i sardi, maestri nel complicarsi la vita e indagati da anni per attentato multiplo alle coronarie dei tifosi. I sardi vanno avanti subito, assaltano la porta di Brignoli, si procurano il rigore del raddoppio ma Sau la spedisce direttamente a Benevento. Da quel momento il Cagliari cala e subisce, i campani prendono coraggio, spingono e trovano il pareggio su ti rigore a tempo scaduto, quasi a dire "visto come si fa?".
Solo che dalle parti del Cagliari c'è un ragazzo che annusa il momento, che si accorge di avere poco tempo e troppa fame proprio come l'assassino raccontato da Faber. Si chiama Leonardo Pavoletti, ha un solo minuto, forse meno, per cambiare la storia di una partita maledetta. Un pallone, un tentativo, prendere o lasciare. Il trenta prende, raccoglie un pallone sporco che più sporco non si può, si avvita, si contorce, perché caschi pure il mondo ma quel pallone è suo. L'ha già visto, ha già impresso nella mente il gol da quando è partito il cross di Faragò.
E il Cagliari vince così, con la rabbia, con la cattiveria, con cinismo e colpo di testa Pavolettiani, che suonano un po' come pizza e babà a Napoli.
Manca ancora tanto, ci sarà ancora tanto da lavorare per questa salvezza. Perché il Benevento si poteva arare tranquillamente come fatto da tutti gli sfidanti a turno e non lo si è fatto, anzi, gli isolani sono stati gli unici a rischiare di non vincere. Però questa è una di quelle vittorie che fanno bene, quelle sporche, quelle da bava alla bocca, quelle che ti fanno capire che la ruota gira, che qualcosa sta cambiando.
