Franco Brozzu è il «nonno» del giornalismo sportivo sardo. Nell'anno dello Scudetto ha raccontato - attraverso le righe de L'Unione Sarda/Informatore - le gesta dei rossoblù, con alcuni dei quali ha poi prolungato la stagione, come inviato per il Mondiale in Messico. Ai nostri microfoni il giornalista narra alcuni retroscena e presenta alcuni aspetti di quell’epoca.
Signor Brozzu, la tv era da poco nata, a internet non si pensava, la stessa radio non era sempre a portata di tutti: quella della carta stampata era una professione totalmente diversa, è così?
“La tv esisteva già da diversi anni, ma nel calcio non aveva l'importanza che ha oggi. Chi leggeva il giornale l'indomani, molte volte sapeva solo il risultato delle partite, o addirittura neanche quello. La nostra preoccupazione quindi doveva essere quella di “raccontare” la gara con dovizia di particolari. La stramaggioranza dei lettori non aveva certamente visto i filmati, e non tutti potevano aver avuto possibilità di ascoltare le trasmissioni sportive radiofoniche. Il taglio da dare agli articoli doveva essere impostato tenendo conto che in molti casi saremo stati la prima fonte di informazione. Questo spiega perché le cronache delle partite erano quasi “tautologiche”, una descrizione pedissequa di quanto successo in campo. Oggi il cartaceo da molto più spazio agli approfondimenti”.
Il suo rapporto con Riva?
“Ottimo. Cito solo un aneddoto, fra i milioni che posso avere il privilegio di raccontare: ai Mondiali del 1970, i giocatori della Nazionale avevano il permesso di parlare soltanto per un'ora al giorno, dalle undici a mezzogiorno, nel piazzale della piscina dell'albergo. Gigi non è mai sceso e io sapevo che era in camera insieme ad Albertosi. Avvicino Ricky e gli dico che avrei voluto dialogare con Gigi. Il nostro portiere gentilmente riferisce e Riva risponde che avrei potuto bussare in camera quando volevo. E così realmente fu. Durante quel Mondiale, Gigi rilasciava dichiarazioni e interviste soltanto a me, suscitando l'invidia dei colleghi di tutto il mondo”.
Mario Tiddia?
“Era un grosso personaggio. Schivo e anche un po' chiuso. Ma è fuori discussione quanto sapesse il fatto suo. Viveva il calcio nella sua totalità. Ogni sconfitta la vedeva come un oltraggio al suo amato Cagliari. Ricordo che quando divenne matematica la retrocessione del '76 si isolò da tutti e scoppiò a piangere come un bambino. Squisito uomo di sport, dai valori importanti”.
Il collega del continente con cui ha legato maggiormente?
“Innanzitutto Ghirelli e Gino Palumbo. Poi due grandi amici sono stati Ameri e Candido Cannavò. Infine Pacileo del Mattino di Napoli, col quale eravamo come fratelli”.
Riguardo Andrea Arricca?
“Personaggio per alcuni tratti un po' strano. In campo nazionale era molto riconosciuta la sua abilità sul campo del mercato. Però sarebbe ingiusto dimenticarci di Paolo Marras, che ugualmente ha avuto notevoli meriti, ma che a me sembra caduto troppo nell'oblio. Certamente, insieme sono stati due dei principali architetti dello Scudetto”.
In chi ha visto l'erede di Franco Brozzu?
“Non parliamo di eredi. Sono stato un modesto giornalista. Cito però Antonello Madeddu e Nisio Mascia, due che hanno svolto un lavoro importante”.
Ancora oggi legge quotidianamente il suo Unione Sarda?
“Non tutti i giorni. Diciamo che ormai leggo più i risultati dei commenti. Non sono più andato neanche allo stadio, è diventato un insieme in cui non mi trovo più”.
Come vede l'arrivo di Zola a Cagliari?
“Sono fiducioso. Il Cagliari era eccessivamente impostato per attaccare. A Scopigno era caro il vecchio detto del “primo non prenderle”, perché anche un punto muoveva sempre la classifica. E anche il Cagliari dello Scudetto aveva come impalcatura la retroguardia. I soli undici gol subiti testimoniano come fosse difficili segnare a quel Cagliari”.

