Il bello di sognare, di andare oltre con la fantasia, di pensare che davvero proseguendo dritto sino al mattino dopo la seconda stella a destra ci sia qualcosa che non c’è.
Sognare piace a tutti, piace ai bambini che fantasticano tra i banchi di scuola, al ragazzo che si chiede cosa sarà del suo futuro e persino al lavoratore che, nella scrivania del suo ufficio, un giorno è Rocky e un giorno è Garibaldi.
Anche il presidente Giulini ha il suo sogno sportivo, lo ha dichiarato mercoledì, quando ha dato una sbirciatina al cassetto in cui è custodito senza svelarlo. Ha preferito tenerlo lì, nell’anonimato dell’incerto e del vago e indefinito. Il sogno segreto del patron rossoblù ha acceso quelli nitidi e nostalgici dei tifosi, tra cui è spiccato quello del sindaco Massimo Zedda. Il primo cittadino di Cagliari ha ammesso di non volersi accontentare, dichiarando di sognare il secondo scudetto.
In una secchiata di acqua fredda riportiamo i piedi a terra e abbandoniamo la parentesi onirica. Oggi chiariamo perché il Cagliari non potrà vincere lo scudetto, a meno di clamorosi quanto improbabili investimenti esteri multimilionari.
In un calcio dove i capitali fanno da padrone, la tendenza che si sta sviluppando è quella dell’effetto Pacman, il grande fantasmino che fagocita i piccoli fantasmini.
Partiamo dal confutare la prima idea che il sognatore medio avrebbe per concretizzare l’astratto: si chiama progettualità, quella parola che sentiamo ripetere alla nausea, come un mantra. Con le idee, l’intelligenza, la forza di credere nel futuro, si può ambire, al massimo, alla partecipazione all’Europa League, questo ci dice la storia, questo ci spiega la logica.
Prendiamo l’esempio dell’Atalanta: nel 2016-17 i bergamaschi mandano in scena quello che, per distacco, è il miglior campionato della loro storia. Le azzeccano praticamente tutte: si inventano un Papu Gomez versione divina, alla miglior stagione della sua carriera, pescano dalle giovanili il miglior terzino italiano in circolazione (Andrea Conti), gli esplode in mano la bomba Kessie, un onesto mestierante come Gagliardini diventa una mezzala da nazionale, Masiello e Toloi son due muri, Caldara si rivela un fenomeno e persino Petagna si sveglia. In una stagione irreplicabile e impensabile, in un’annata ai confini della perfezione non c’è mezzo secondo in cui l’Atalanta sia considerata da scudetto. Questo perché mentre i nerazzurri pensano la Juve mette mano al taschino e tira fuori 90 sacchi, portando a casa il più forte centravanti al mondo, Gonzalo Higuain. Condiscono il tutto con Pjaca, Benatia, Cuadrado e Pjanic, tanto per gradire. La prova del caso unico nel suo genere arriva quest’anno, quando i nerazzurri disputano quella che anche attualmente è considerata una stagione eccellente, fermandosi ai sedicesimi di Europa League, alla semifinale di Coppa Italia e occupano l’ottava posizione al momento in cui scrivo (a tredici punti dalla Champions e trentuno dalla vetta). L’anno prossimo i lombardi perderanno Spinazzola e Caldara (intanto “scippati” da Pacman Juve), Kessie ha già scelto i cinodollari del Milan e Gagliardini aveva abbandonato la baracca già a gennaio 2017. A ciò aggiungiamo che a febbraio il Papu si è iscritto al club dei trentenni e il leader difensivo Masiello ne ha trentadue. L’anno prossimo l’Atalanta peggiorerà ancora il suo seppur ottimo piazzamento di questa stagione. Scommettiamo?
Spostiamoci di qualche centinaia di chilometri e andiamo a Reggio Emilia, Mapei Stadium, casa del Sassuolo del ricchissimo Squinzi. Da quelle parti si spende ma non si spande, prima le idee, prima i giovani italiani. Nella stagione 2015-16 i neroverdi vantano una rosa composta dai seguenti nomi, in ordine sparso: Pellegrini, Vrsaljko, Sansone, Defrel, Berardi. Squadre attuali, in ordine: Roma, Atletico Madrid, Villarreal, Roma, Sassuolo. Uno su cinque ce la fa, e ce la fa malissimo. Perché quell’anno i neroverdi sono una meraviglia e arrivano sesti (mica primi), conquistano l’Europa e brindano ad una squadra di futuri fenomeni. Peccato che da grandi talenti derivano grandi ambizioni, e nelle successive due stagioni il Sassuolo viene letteralmente smantellato. La stagione successiva dimezza il piazzamento (o se preferite lo raddoppia, con la dodicesima posizione), inizia la migrazione di massa e i neroverdi vengono drasticamente ridimensionati. Resta solo Berardi, che vivrà una clamorosa involuzione. Oggi il Sassuolo rincorre quella che sarebbe un’ottima salvezza, e i sogni della big nel piccolo contesto sembrano esser definitivamente accantonati.
Lungi dal voler annoiare ancora a lungo, ricordo le piccole squadre diventate grandi negli ultimi anni e i loro rispettivi proprietari. Il primo patron si chiama Khaldoon Al Mubarak, sceicco emiratino che rileva il Manchester City dei perdenti nel 2008, precisamente a fine mercato estivo. Non c’è tempo per pensare, il presidente controlla gli spicci e tira fuori 42 milioni di euro. Robinho, astro nascente del calcio mondiale, si tinge di blu. In dieci anni gli inglesi son diventati la squadra più forte di Inghilterra in modo conclamato. La spesa? Più di un miliardo di euro e quattro esoneri.
Il secondo plenipotenziario di club si chiama Nasser Al-Khelaifi from Qatar, patrimonio da oltre sessanta miliardi di euro. Prende il PSG nel 2011, una nullità pure in un campionato di livello medio-basso come quello francese e la trasforma nella regina incontrastata della nazione transalpina. Il tutto per la modica cifra di 900 milioni di euro.
Un dettaglio per concludere e lasciare ognuno alle proprie conclusione: quest’anno Giulini si è svenato mettendo a segno l’acquisto più costoso della storia del Cagliari: Pavoletti Leonardo, prezzo dodici milioni.
Dimenticate le idee e la magia. Oggi solo i petroldollari possono trasformare un rospo in una principessa. Perché il campione lo compri e lo strapaghi e se lo cresci tu Pacman se lo porterà via.
A maggior ragione in un campionato tattico e spietato come quello italiano, dove miracoli come il Leicester sarebbero impossibili.