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Godin, l'ultimo dei romantici

El Faraon, eroe dei tre mondi alla conquista del quarto

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Ventotto maggio duemilasedici. Juan Francisco Torres Belen, in arte – nemmeno troppa – Juanfran, terzinaccio proletario nell'Atletico del Cholo che inneggia al pueblo unido jamas sera vencido, ha appena sparato sul palo il pallone più pesante della sua carriera. Siamo alla lotteria dei rigori, è la finale di Champions League ed è Real Madrid contro Atletico, la seconda stracittadina in tre anni con vista sull'Europa. Diego Godin, capitano e leader indiscusso ed indiscutibile dei colchoneros, osserva Cristiano Ronaldo dirigersi verso il dischetto col volto imperturbabile di chi non sbaglierà quel rigore manco calciandolo venti volte di fila. Lui, mezzo numero sette e mezzo demiurgo, passeggia come un boia verso il destino. L'altro, Diego, lo attende al patibolo.

È la seconda volta, perché due anni prima l'uruguagio di Rosario, dipartimento di Colonia, era andato a tanto così dal diventare collega del suo connazionale Alcides Ghiggia (quello del Maracanazo) nella fabbrica degli incubi dell'Olimpo. Era il 2014 quando un Cristiano trasumanante conduceva il Real a un passo dall'ossessionante decima. Quella finale, ancora tutta tra cugini, va ad un capriccio degli dei dal finire 1-0, gol di Godin. Ma Diego, capitano di un Atletico di legionari al servizio della Revoluccion Cholista, animale da competizione, universalmente riconosciuto come uno dei più efficaci muri post Berlino '89, vedrà il sogno della Champions scivolare sul marmoreo addome di CR7, esibito due volte su due davanti agli occhi del Faraone.

È la retorica di Godin, tanto vincente quanto dannatamente sconfitto, ma sempre clamorosamente decisivo, anche in zona gol. Pazienza se trattasi di uno dei centrali più tough del decennio, perché quando l'asticella si alza, Diego punisce. Per ottenere conferme riavvolgere il nastro, tornare ai mondiali del 2014, e ricordare Uruguay-Italia, quella di Chiellini morso da Suarez e di Bonucci sbranato sul duello aereo da Godin, con annessa eliminazione azzurra.

È la retorica di un jefe col killer instinct, eppure sconfitto nelle gare più importanti della sua carriera da numero 2 (sulla maglia). Come quest'anno, quando dopo aver giocato per anni in difese a quattro, si è messo a disposizione del dittatoriale credo di Conte e della sua difesa a tre: ha accettato la panchina, ha imparato i meccanismi, ha ruggito e spedito a bordo campo Skriniar. Si è preso la finale di Europa League, ha segnato nella finale di Europa League (e sai che novità), ma l'ha persa all'atto conclusivo. Poi il benservito dell'Inter, anche piuttosto inatteso, e la grande decisione. Ripartire dall'isola per prendersi il mondo, l'ennesimo.

Lui, sovrano d'Egitto nel soprannome, re di Spagna nel palmares, Dio dell'Uruguay per adorazione popolare. Cagliari è l'occasione per puntare la bandiera sul quarto pianeta e far dormire sonni molto poco tranquilli in Casa Inter, per trasformare in una barzelletta i nomi di Fazio e Juan Jesus e rimettersi in gioco anche a 34 anni. In Sardegna nessuno gli chiederà di vincere, ma solo di scrivere un nuovo capitolo nel romanticismo degli Uruguagi del Golfo degli Angeli. Godin, vincente e poeta della sconfitta allo stesso tempo, non può dirsi talismano, né macchina da successo. Ma se il popolo cerca un leader, bussi a casa sua.

Armatevi e partiamo. Io son già pronto, io sono Godin, l'eroe dei quattro mondi.

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