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Paschixedda in Sardegna, tra innovazioni e tradizione, la riunificazione delle famiglie davanti al focolare

Il tipico Natale agropastorale sardo, tra barralliccus e papassinas, sa miss’e pudda al pranzo con “mandada”

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Il Natale targato 2023 si è appena concluso ed anche in Sardegna, in quasi tutte le case fervono gli ultimi preparativi per il cenone di fine anno, con le sue luci, i concerti nelle piazze, e le feste per dare il benvenuto ad un nuovo anno, carico di speranze e aspettative.

Come sempre più negli ultimi anni, anche oggi le famiglie sarde si sono preparate alle festività natalizie nel migliore dei modi, tra acquisti e parsimonia, innovazioni e tradizione, e se da una parte c’è chi cerca la modernità dei locali e delle feste, dall’altra ci sono anche tantissime famiglie che cercano di mantenere vive le tradizioni sarde legate a queste feste.

Certo, è vero, “oggi i tempi sono cambiati” verrebbe da dire dagli amanti delle novità, un po' in rottura con le tradizioni natalizie, più interessati a festeggiare il Natale secondo nuove modalità, dal pranzo al ristorante o partecipando a qualche festa danzante. Ed in fondo il vero spirito del Natale è proprio questo: accettazione e rispetto, in tutte le forme, accogliendo il messaggio d’amore rappresentato dall’arrivo di Gesù 

Tuttavia, a beneficio di tutti i punti di vista, per capire meglio il valore e l’importanza che questa festa aveva per le famiglie sarde, dobbiamo fare un piccolo passo indietro e tornare alla società sarda a prevalente carattere agropastorale; in quel periodo era molto frequente che gli uomini, padri e capi famiglia, trascorressero molti mesi lontano da casa, impegnati con le greggi mentre le donne e i figli li attendevano a casa.

Ebbene, “sa Paschixedda” (come i sardi chiamano il Natale, a differenza di “Sa Pasca Manna”, la Pasqua) aveva la possibilità e il dono di riuscire a riunire le famiglie, ma non solo il padre con la propria sposa ed i figli, ma la famiglia in senso più ampio, fino ad un vero e proprio ricongiungimento delle comunità.

Nei giorni che precedevano il Natale, gli uomini tornavano alle case dalla lunga transumanza e da quel momento tutta la famiglia veniva impegnata nei preparativi, a partire proprio dalla macellazione del maiale, immancabile sulle tavole sarde, citato addirittura da Salvatore Cambosu nel suo celeberrimo “Miele amaro”: “Certo, ci vuole proprio un villaggio perché un bambino come Gesù possa nascere ogni anno per la prima volta. In città non c’è una stalla vera con l’asino vero e il bue. Non si ode belato, e neppure il grido atroce del porco sacrificato […]”.

Tra i rituali di preparazione al Natale a volte rientrava anche l’imbiancatura delle pareti della cucina, annerite dal fumo del camino così da rendere pulito e accogliente il luogo nel quale tutta la famiglia si sarebbe finalmente ritrovata. Per l’occasione, inoltre, veniva scelto e tenuto da parte un grande ceppo da accendere solamente la notte, “su Truncu de xena” appunto, un ceppo tanto grande da riuscire a bruciare, lentamente, per tutta la notte con la convinzione pagana che questo avrebbe determinato una buona fortuna per la famiglia.

Finalmente riuniti nelle proprie case, davanti alla luce ed il calore del focolare domestico, le famiglie sarde si ritrovavano per “sa nott’e xena”, raccolti e uniti per un pasto frugale consumato tutti insieme in attesa del più abbondante e festoso dell’indomani.

E mentre i più piccoli si intrattenevano ascoltando i racconti dei propri padri o degli anziani, oppure con “su Barralliccu” o altri giochi tradizionali, il grosso ceppo acceso nel camino ardeva in attesa della mattina del 25 accompagnando l’attesa dei rintocchi delle campane che invitava i fedeli alla Santa Messa, “sa Missa e Luxi” o “sa Miss’e pudda”.

A questo punto, tutta la comunità (tranne le donne in lutto che la notte restavano a casa e partecipavano alla prima orazione del giorno dopo) prendeva parte alla Santa Messa, specialmente le donne in attesa le quali, in un misto di tradizione e atavica cultura ancestrale, volevano a tutti i costi scongiurare la nascita di un figlio malato poiché era consuetudine credere che già il nascere nella notte di Natale avrebbe garantito al piccolo una protezione speciale contro sventure e malanni. Addirittura, in alcune zone del Logudoro, si riteneva che la nascita di un bambino nella notte del 24 dicembre, avrebbe protetto le 7 case vicine.

In un misto tra tradizioni pagane e cristiane si arrivava finalmente al vero giorno della festa, il 25 Dicembre dove era tradizione consumare un lauto pasto a base di prodotti tipici come l’agnello ed il capretto arrosto, con le frattaglie cotte stufate spesso a parte, formaggi e salsicce ottenute da “su mannale”, ovvero il maiale allevato in casa e macellato di recente, nei giorni precedenti la festa, con il ritorno degli uomini alle case.

Non venivano tuttavia mai dimenticate dalla comunità anche le famiglie meno abbienti, che non potevano permettersi un pasto abbondante della festa, poiché veniva loro offerto dalla stessa comunità “sa Mandada” ossia una scorta di cibo che difficilmente si consumava in grandi quantità durante tutto l’anno (ad esempio salsiccia, formaggio, dolci etc) che poteva allietare la famiglia indigente.

E come vuole la tradizione e la buona tavola, il tutto veniva accompagnato da un buon vino, dal Fil’e ferru e dai dolci, immancabili sulla tavola della festa come ad esempio “sa tunda”, pane dolce di forma rotonda arricchito con noci e uvetta, a “su bacchiddu ‘e Deu”, pane di forma allungata e decorato per essere simile al pastorale del vescovo, per arrivare alle “pabassinas”, biscotti glassati a forma di rombo con impasto a base di mandorle, farina, sapa, uvetta, noci e nocciole.

Dal momento che non era consuetudine consumare quotidianamente questi alimenti, nulla doveva essere sprecato e tutti si dovevano saziare, compresi i bambini, i quali sovente ricevevano lo spauracchio minaccioso di Maria Punta ‘e Orru (nelle zone interne dell’isola è anche conosciuta come Palpaeccia): durante il sonno, avrebbe tastato loro la pancia e se l’avesse trovata vuota, l’avrebbe trafitta con uno spiedo.

Preservando queste tradizioni e questi racconti, le madri si assicuravano l’educazione dei figli e l’osservazione di tutte le regole della buona educazione familiare, valida non solo per i più giovani ma anche per gli adulti, come monito a non farsi accecare da odio e rancori che induriscono i cuori, rendendoci soli e vuoti, ma rispettosi delle tradizioni e riti che si perdono nella notte dei tempi ma che rivivono, ogni anno, in tutte famiglie sarde.

 

Progetto promosso dalla Regione Sardegna, Assessorato al Turismo

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