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Is Brebus, le antiche parole magiche della Sardegna

Le antiche guaritrici sarde che lenivano sofferenze e tribolazioni

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Ciascuno di noi, almeno una volta nella vita, si è dovuto confrontare con il malocchio o la sfortuna ed in queste occasioni avrà certamente sentito parlare di Sa Mejina po s’ogu malu, amuleti e brebus.

In altra occasione abbiamo avuto il piacere di affrontare il tema degli amuleti, diffusissimi in Sardegna e dell’affascinante mondo dei significati che li accompagnano.

Oggi invece vorremmo soffermarci sul significato delle parole che accompagnano e rendono efficaci gli amuleti: is brebus.

Letteralmente significa “parole” ma non nel senso che daremo a “fueddu”; non sono infatti dei sinonimi perché il significato di Brebus è più vicino al significato di Parola che da valore, che si pone come un sigillo, che produce degli effetti.

Questo non vuole sminuire su fueddu, anzi! Un accordo, anticamente, si riteneva siglato anche solo con una parola di intesa, “si funti onasu su fueddu” equivaleva alla firma di un contratto, era una parola d’onore.

Is brebus invece erano parole che avevano il potere di liberare una persona dal malocchio che lo aveva colpito, riuscivano a liberare uomini e donne dalla sofferenza, davano loro la forza di superare difficoltà e avversità.

Recitare is brebus per liberare dal malocchio era una pratica riconosciuta e di indubbia valenza, il cui compito era affidato alla guaritrice la quale, attraverso formule e rituali, era in grado di liberare dal male, anche a distanza.

In un misto di ritualità cattolica e pagana, la recita dei brebus seguiva schemi e regole precise; la più diffusa prevedeva di prendere una ciotola con dell’acqua e versarci dentro una manciata di chicchi di grano, granu de trigu. Annunciato il nome del beneficiario, la guaritrice recitava il Credo.

Se il chicco “si ndi pesara”, cioè se il grano emetteva delle bollicine e si sollevava in verticale nell’acqua, la guaritrice aveva la sua risposta: la persona era “pigada a ogu” e se le bollicine “zaccanta”, cioè scoppiano, allora la situazione è veramente grave.

Una volta conclusi i rituali previsti dalla situazione, la guaritrice era solita recitare un’ultima formula, ossia “de da torrai sa sceda in su beni o in su mali”, ossia di essere tenuta al corrente sulle condizioni del beneficiario, sia che si fosse rimesso ma anche, e soprattutto, nel caso in cui il malocchio persistesse perché in questo caso era necessario ripetere il rito e magari aggiungere qualche altra formula.

Il malocchio può essere esercitato su tutto ciò che è vivo, che “si scorara” cioè perde vitalità e vigore: animali, piante, cibo come ad esempio un pane che non lievita, una pianta che avvizzisce, un animale che cresce poco e male.

I brebus vengono tramandati ad una persona più giovane, alla quale, oltre alle formule, la guaritrice anziana trasferisce tutto il suo potere salvifico, restandone totalmente priva. Non dimentica, ma trasferisce e passa la mano ad una guaritrice più giovane e forte.

Una nuova guaritrice capace di riconoscere e rimettere a posto chiunque avesse “sa pipìa e s’ogu” ossia la pupilla più grande del normale, l’invidiosa, “s’ogu ‘e crabu”, l’occhio del maligno.

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